La fragilità umana

Ho passato un sabato pomeriggio al pronto soccorso e una notte in ospedale, col bimbo. 

Nulla di grave per fortuna, anche se considero la fortuna un concetto vago, antidemocratico, astratto, soggettivo e pieno di prepotenza.

Certi ambienti ti guardano un po’ in ghigna e ti spogliano del buonumore, come se tu facessi una lunga pausa sigaretta (anche se non fumi) fumando in mezzo alla paura, che come il dolore e tutte le altre grandi “emozioni”, anche belle, ti fa ragionare poco.

Ti accorgi di quanto sia presente la fragilità, di quanto, tra tutte le certezze, se di certezze si tratta, la fragilità umana è la più certa.

Siamo fragili e precari e provvisori e momentanei.

Attaccata ai fili insieme al bimbo c’era un’anziana signora che non ha aperto bocca in cinque ore, sola, con una fede al dito consumata, dono di qualcuno che forse non è più a casa ad aspettarla.

C’era un vecchio caduto da un albero, con le scarpe da lavoro ancora ai piedi, un altro che smaniava per tornare a casa e l’ha chiesto  a me per dieci volte e io, per dieci volte, gli ho risposto che non ero un’infermiera ma la mamma di Giovanni.

Due ragazzine sbriciolate da una caduta col motorino, un ragazzo che s’era tuffato di testa dove l’acqua era troppo bassa, un signore che defribillava pieno di fili come collane e uno che è svenuto a patta sulla porta.

Questo solo il campionario vicino a me, in un sabato che invece te lo immaginavi al mare o nel blu di una piscina.

È l’ennesima epifania del fatto che sei solo un puntino tra tanti puntini, che ognuno combatte il suo giorno come può, che siamo spesso soli pur essendo in molti, e che, soprattutto, dovresti dire molte più volte grazie di quanto tu non faccia già.

E fine della storia