Il primo giorno di scuola

Stamani, mentre portavo fuori Mario, ho rivisto la piazza delle scuole elementari piena di bimbi e genitori, le macchie color bianco e azzurro dei grembiuli e delle casacchine, le botte di colore degli zaini, le gambe secche e scalpitanti di salire in classe, le voci e i visi contenti matti di ritrovarsi.

Boia.

Una botta di inesorabile tristezza m’è caduta addosso senza chiedere il permesso, legata ad anni belli e candidi.

Il Giova  va in terza media  ed è ufficialmente un ragazzino, al quale puzzano le ascelle.

Uno di quelli che dice: “Mamma non ho più tre anni” o “Mamma sei imbarazzante” o “Scusate, raga, è la mi mamma” e chiude la porta di camera.

La su’ mamma, quella vecchia, aggiungo io.

Boia.

Ripenso ai momenti che ti accompagnano per sempre, come le sensazioni che hai provato vivendoli.

Le vigilie di Natale quando ero una bimbetta.
L’odore del ragù della mi mamma il sabato notte quando rientravo a casa.
Gli occhi del mi babbo, l’ultima volta che mi hanno sorriso consapevoli di farlo. 
Il suono della campanella, il batticuore del primo giorno di scuola, gli occhi curiosi e i corpi ancora abbronzati e caldi di sole che si siedono ai banchi.
L’odore dei libri nuovi.
La prima volta che ho annusato quell’ormai ragazzino del Giova.

Mi chiedo se siamo mai davvero pronti al cambiamento o lo assecondiamo perché non possiamo fare altrimenti. 
Se è necessario per forza essere felici di tutto o ci possiamo cullare nella tristezza di pensare ai giorni in cui tutto ci sembrava più speciale, senza sentirci in colpa per quel che è ora, speciale in un altro modo.
Se la paura del tempo che passa è concessa o la dobbiamo nascondere sotto al letto,  come faccio con le scarpe quando non so dove cazzo metterle.
Se è giusto durare così fatica per essere sempre una versione migliore di te, quando una versione migliore di te non esiste, perché te sei qui e ora.

Meno male piove, così magari mi faccio meno domande e parlo del tempo.

E fine della storia

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