Elisabetta
Elisabetta, mi sei sempre sembrata la mi zia Flora.
Molti non la sopportavano.
Ha un caretterino, dicevano.
È un serpentello, dicevano ancora.
Comanda tutto lei, però, eh.
Che poi era anche vero, ma io me ne sono sempre sbattuta le palle, una persona si definisce per quello che è e che fa per te, e lei era la mi zia Flora, e voi fatevi i cazzi vostri.
Comunque, Elisabetta, dicevo (anzi scusami per il linguaggio non proprio reale) mi sei sempre sembrata la mi zia Flora.
Ti sei spenta come una candela alla quale il peso dei troppi anni ha tolto ossigeno, perché tutto e tutti hanno un tempo su questo mondo, anche i Regni, anche i potenti, anche chi fa la storia e ne vive un bel pezzetto.
In fin dei conti l’essere umano, spogliato dalle convenzioni, è come un filo d’erba, una creatura del cielo, o del mare.
Siamo nudi di tutto ciò che ci ha definito o ci definirà quando moriamo e quando nasciamo: una forma di uguaglianza, non sufficiente forse, ma una forma di uguaglianza.
Ti immagino a caccia sulle nuvole, sdraiata a patta su una pelliccia d’ermellino, a sorseggiare il the delle cinque e non certo un estathè in brick, come farò io quando moio, a passeggiare tra le vie del paradiso con quei tuoi buffi cani al seguito.
Sei stata l’immagine della mia lotta contro i colori pastello: “Il color pastello solo se sei la Regina Elisabetta”.
E ora? Ora a cosa mi appiglio?
I colori pastello sono morti con te.
E fine della storia
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