L’educazione sentimentale
Ho letto molte volte “L’educazione sentimentale” di Flaubert.
In estate, di solito, quando un Vanity Fair a settimana, sul quale tutte sono più fie di me, in costume poi, m’è venuto a noia.
Che poi è una bella immagine, non quella mia in costume, ma quella di educarsi al sentimento.
Ancorarsi a quello che sentiamo e educarsi a dimostrarlo, o educarsi a rinunciarci, fermo restando che non siamo tutti uguali sia nelle azioni che nelle reazioni.
Un giorno mi è capitato di sentire che il miglior finale in letteratura è proprio quello de “L’educazione sentimentale”.
Perché non finisce in nessun modo: due vecchi amici che ricordano, insieme, la cosa migliore che non gli è mai accaduta, un finale aperto, come si dice oggi.
E come (cazzo) si ricorda qualcosa che non è mai accaduto?
Teneramente, si ricorda, con il rischio, ovvio, dell’idealizzazione, che è la forma peggiore che si può dare a un sogno, per come la vedo io.
Flaubert, in fondo, credeva che la forma di piacere più pura fosse l’aspettativa e anche la più vera ; perché, mentre quello che ti succede finisce immancabilmente per deluderti, per schiacciarti, per farti male, quello che non ti è mai successo non muore mai, non scompare, si acquatta e rimane per sempre inciso nel tuo cuore, come una dolce malinconia, un tintinnio nel cuore, un’ombra buona, smettendo pian piano di fare rumore.
Ricordiamoci che siamo a metà Ottocento e io voglio credere che oggi ciò che ci succede possa anche non deluderci, ecco (raro, è vero) e che provarci non è mai una cattiva idea, sulla carta.
In fondo siamo tutti avvolti (come le bracioline della mi nonna Tina nel pangrattato) nel romanzo delle nostre vite e tutti, proprio tutti, possiamo essere il più bel finale in letteratura di sempre.
Per oggi è tutto.
E fine della storia
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