Quando sono nata

La mia mamma ha tre fratelli maschi. 

Uno di loro, il maggiore, era a caccia col mi babbo quando i primi dolori del parto iniziarono a farsi sentire. 

Allora lei, racconta la leggenda di casa, suonò alla signora Furia, che abitava sopra di loro, a Ponteginori, Pisa, Toscana, Italia (quindi sono ufficialmente mezza pisana. Ah, e ho abitato ufficialmente a Ponteginori, si controlli lo stato civile, prego, lo sottolineo per i miscredenti) che a sua volta andò a chiamare il mi’ nonno Oscar, il babbo del mi’ babbo, che a sua volta salì in macchina e andò a Micciano, o nella fantomatica Cortolla, che poi, dov’è, non l’ho ancora capito, a sberciare al su’ figliolo, cioè al mi’ babbo che, sai com'è, Mario, sta per nascere la tua primogenita, (una sorta passaparola alla Branduardi, ma senza mercato).

La vera domanda è: "Cosa cazzo ci faceva il mi' babbo a caccia se i tempi erano maturi?". 

Glielo avrei sempre voluto chiedere; ma insomma, ha profuso talmente tanto amore per me nei trentasei anni passati insieme, che questa leggerezza posso anche perdonargliela. 

Comunque. 

Oscar portò a termine la missione, il mi’ babbo mollò il su’ cognato a caccia, salì in macchina e, sempre secondo la leggenda di casa, con una guida alla Niki Lauda, raggiunse la mi’ mamma e insieme si diressero verso l'ospedale di Pisa (quindi sì, sono ufficilamente un po' più che mezza pisana).

Ora, come nascono i bambini lo sapete, quindi sorvolo sui dettagli ma, racconta sempre la leggenda, pare c’abbia messo un bel pacchetto d’ore ad affacciarmi al mondo; si vede volevo essere sicura che fosse un posto adatto a me, che mi piacesse davvero il casino della vita fuori dalla pancia della mi’ mamma.

Ci volevo pensare insomma, che poi ci sta anche che questa cosa di pensare troppo a tutto mi derivi proprio da lì.

Dice la mi’ mamma che faceva un freddo cane in quel febbraio del 1973 e che, la prima volta che mi ha visto, ero tutta rosa e senza capelli. 

Mi è sempre garbato sentire la storia di quando sono nata: la storia di un nuovo arrivo, la storia di due vite che cambiano, la storia di due vite che ne accolgono un’altra, la storia di una famiglia, la storia di un grande amore, la storia di un cammino insieme, la storia delle mani di Mario che, unite insieme, mi tenevano tutta.

Il mi’ babbo poi, mi tirava le orecchie la mattina di ogni mio compleanno e finché la malattia non ha mangiato la sua vita e la sua persona, non ha mollato la tradizione.

Le nonne materne (che poi una era una zia della mi mamma, ma era un'altra nonna per me) mi chiamavano alle otto e un quarto di sera (ora in cui la leggenda di casa racconta sia nata), tutti i ventisette di febbraio, finché hanno potuto farlo.

Quelle tirate di orecchie e quella telefonata delle otto e un quarto di sera mi mancano tanto davvero, come manca un abbraccio che sai non riceverai mai più, come manca il bacio della buonanotte di quando si è bimbi, come mancano sorrisi e braccia tutte intorno. 

Quindi ragazzi: viva i compleanni, viva il tempo che passa, viva le telefonate, viva le candeline, viva le sorprese, viva le orecchie tirate, e viva pure quello che un po' (tanto) ci manca, perché è anche grazie a quello che siamo diventati quello che siamo. 

In fin dei conti, davvero  “Possiamo correre, possiamo andarcene o stare immobili e lasciare tutto splendere, possiamo prenderci, possiamo perderci, dirci solamente cose semplici, possiamo ridere e farci fottere, ballare scoordinati e lasciare perdere, possiamo illuderci, ballare stando fermi, e fare caso a quando siamo felici”.

Viva la vita, che mi ha dato tanto, anche se certi giorni mi pare di no. 

E fine della storia.

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