La belle époque livornese
Eccomi nel primo giorno lungo dal cambio dell’ora.
Il lungomare (che per chi non lo sapesse di scrive tutto attaccato, come ebbe a dirmi una a Marina di Cecina, che è tanto un bel posto, dandomi la password del wi-fii; pensa te, pensavo di inserirlo dividendolo in sillabe!) è un brulicante cespuglio di vita e di vite: la primavera è la Belle Époque livornese.
Adoro.
I Pancaldi scaldano i motori. La gente corre. I cani annusano centimetri quadri di mattonelle e di code di altri cani. Nei pressi degli scogli dell’Accademia si pesca. Qualcuno si bacia. I gabbiani fanno i gabbiani.
La primavera sembra volerti insegnare a fregare il dolore, tutto rinasce e assume profumi diversi, ognuno salva quello che vuole dalle macerie del suo personale inverno.
A me mi mette ansia, più del normale, a tutta questa luce sbattuta in faccia da un giorno all’altro mi ci devo abituare, mi sembra ci sia più tempo per fare tutto e io, invece, vorrei che a dettare le regole fosse solo la mia voglia di farle, le cose.
La primavera, per me, ha tatuata, tra tutte, l’immagine del mio babbo che torna a casa da lavoro in bicicletta e io lo aspettavo affacciata al terrazzo.
In fondo la vera ricchezza, forse, e dico forse, sono le sensazioni che ti procura qualcosa di impalpabile come una stagione.
Sensazioni che invadono corpo e cuore, e segnano la nostra personale mappa catastale, il nostro personale cabrèo, che è fatto di punti di luce e di ombra, una ricchezza che non si quantifica in soldi o in proprietà, ma in sospiri.
E fine della storia.
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