Dé, bello. Boia, sì, bello bello. Dé.

Qualche mattina fa  ho assistito al surreale, a una cosa sulla quale scherzo e che si è fatta reale, a riprova del fatto che non vaneggio.

Che sono strana, sì, ma che non vaneggio.

Vado a bere un caffè, che poi ne ho bevuto mezzo perché, per una volta che uso la macchinetta, mi è stato di nuovo chiaro il motivo per il quale non ci vado mai. 

Comunque, bevo questo caffè sui gradini di fronte all’edificio e mi fanno compagnia quaranta amiche, le mie carte, anzi no, un vento bestia e un gabbiano, per fortuna lontano.

Un tipo di sesso mascolino cammina avanti e indietro in uno spazio di un metro e mezzo, a esagerare, parlando al telefono con gli auricolari.

“Dé, bello. Boia, sì, bello bello. Dé, lo dicevo, guarda che è bello. Sì sì, boia, bello”.

Ad libitum.

Parlava per aggettivi e esclamazioni livornesi.

Ogni tanto c’ha infilato un verbo, ma insomma, un concetto non mi pare l’abbia espresso.

Poi ovvio che noi femmine risultiamo pesanti, siamo descrittive per natura e loro, fino a prova contraria e salvo rarissime eccezioni, non descrivono un cazzonulla: né di pratico, né di poetico, tranne quando in gioco c’è la tua bocca che li toccherà da qualche parte, per rimanere eleganti, per quello imparano a memoria l’Odissea e te la recitano, tranne poi rinnegare non solo di saperla a memoria, ma pure di avertela recitata, ma questa è un’altra storia. 

A meno che “Boia bello, dé!” non sia un’esclamazione di somma sapienza, forbita e aulica, che fa chic e che viene subito dopo: “Alé Livorno, Livorno alé!”

Va a finire che sono degli incompresi, e le approssimative siamo noi.

Ahahah.

M’avrebbe anche migliorato la giornata, non fosse perché mi sarebbero garbate un paio di scarpe e il mio numero era finito. 

Dé, bello. Boia, sì, bello bello. Dé, lo dicevo, guarda che è bello. Sì sì, boia, bello.

E fine della storia

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